Mineros
A quanto pare le miniere non sono come quelle dei sette nani. Non si fischietta allegramente mentre simpatici uccellini trasportano secchi di pepite d'oro, e la galleria non e' un piacevole cammino sorretto da eleganti travi di legno.
Chissa' perche' ma ne avevo l'impressione. La montagna del Cerro Rico di Potosi e' un termitaio di gente con i polmoni pieni di terra e fango. Di bambini che spingono carrelli da una tonnellata. Di facce sporche e mascelle distrutte dal masticare foglie di coca. Ci sono oltre quattrocento miniere e quindicimila lavoratori nelle viscere della madre terra, con una luce in testa che non puo' segnare la differenza tra il giorno e la notte. Incontro una squadra al lavoro da ventisei ore: un ragazzo che potrei essere io, venticinque anni e un volto da quarantenne, nella corporazione dei minatori da quindici anni. I conti si fanno alla svelta.
Ho il mio elmetto in testa, la tuta gialla, gli stivali, la cintura con la batteria per il fascio di luce che parte dalla fronte. Bisogna piegarsi, tanto, e spesso. Fa freddo nei cunicoli, e caldo, trentacinque gradi. Ci sono travi spezzate, buche di decine di metri, scale di legno, polvere. Portiamo coca e succo a quegli uomini rinchiusi nelle tenebre. Uomini che non hanno scelto di essere minatori, ci si sono ritrovati, senza alternativa. Uno mi regala una pietra di stagno e argento, e' stata una buona settimana e per una volta venderanno bene il frutto del loro lavoro ai gringos delle multinazionali. Guardo quella pietra e penso che mai piu' nella vita potro' lamentarmi del mio lavoro.
In fondo tutti almeno una volta nella vita dovremmo guardare quella pietra; forse cosi' sarebbe piu' facile apprezzare la nostra esistenza.
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