The terminal
Seduti in una sala d'attesa il pensiero raramente va al viaggio, al cammino che ci aspetta. O a quello che e' trascorso, ai ricordi vicini o lontani di una giornata o di una vita. La mente si concentra sempre sull'attesa. Seduti ad aspettare il prevedibile, con gli occhi che si spostano mollemente dai capelli arruffati della signora sulla panchina al banco dei panini del bar di fronte.
Cosi', piu' o meno, iniziava la mia tesina per la maturita'. Chissa' dove volevo arrivare. Il succo del discorso era che il futuro si costruiva tornando al passato. Che l'originalita' era riproporre l'antico nel nuovo.
Mi viene da pensarci dopo tutte le ore trascorse tra autobus e terminal. La scorsa notte dodici ore da Bogota' a Popayan. E questa sera via, di nuovo, sette ore per arrivare al confine. Mi piacciono le stazioni. Gli aeroporti. La gente indaffarata che trasporta valigie e pacchetti. Tutto quel movimento che non porta a nulla. Mi siedo. Mi alzo. Prendo un caffe'. Mi siedo. Cammino. Guardo una vetrina. Sfoglio un giornale.
Luoghi dove il tempo e' tutto, e niente. Dove il piu' delle volte non riconosci neppure la citta' o lo stato dove ti trovi, nascosti da pareti di acciaio e cristallo, banchi d'informazione, seggiolini neri.
Penso che potrei vivere in un terminal, in un aeroporto, come un nuovo Tom Hanks incastrato dalla burocrazia e costretto a sopravvivere in sala d'attesa. Mi muovo sorprendentemente bene in spazi sconosciuti, mentre la gente arranca tra i cartelli d'indicazione e gli avvisi dell'interfono.
In fondo e' una parte di viaggio anche questa. Che ti regala tempo per pensare, progettare. Per rivivere in modo rilassato la quantita' di stimoli che una giornata in terra straniera ti butta addosso. Per riappropriarti semplicemente di quello che ti sfugge nella fretta del tempo che corre.
Nessun commento:
Posta un commento